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L’ergastolano Mario Avolese evade dal carcere di Favignana

CronacaL'ergastolano Mario Avolese evade dal carcere di Favignana

Favignana. Sono stati tutt’e tre ospiti della Casa Circondariale di Cavadonna i tre detenuti evasi dal carcere di Favignana. Giuseppe Scardino e Massimo Mangione, entrambi di Vittoria, erano stati
trasferiti sull’isola da qualche mese dopo aver tentato di fuggire dalla Casa Circondariale di Cavadonna di Siracusa.
Nonostante il trasferimento ‘punitivo’, i due erano stati messi nella stessa cella a Favignana. Anche su questo intende indagare il Dap che ha aperto un’inchiesta interna per chiarire la dinamica dell’evasione della scorsa notte. La Procura di Trapani intanto ha aperto un fascicolo sull’evasione dei tre detenuti. Le indagini sono condotte dal sostituto procuratore Marco Verzera.

Il terzo detenuto evaso con i due vittoriesi, entrambi condannati per rapina aggravata, è l’ergastolano Mario Avolese, 64 anni, originario di Pachino.
Assieme ai due violenti rapinatori di Vittoria, molto più giovani di lui, l’anziano omicida di Pachino si è calato dall’alto della sua cella nel sottostante muro di cinta dell’istituto di pena, attraverso una fune realizzata con alcune lenzuola annodate.
Con delle lime i tre detenuti hanno segato le sbarre fissate alla finestra della loro cella.
Mario Avolese sta scontando la pena dell’ergastolo che gli venne inflitta nei tre gradi di giudizio in quanto riconosciuto colpevole dell’omicidio del compaesano Sebastiano Di Rosa, 24 anni, avvenuto nell’autunno del 2002 a Pachino.
Il delitto di Sebastiano Di Rosa, avvenne all’interno dell’abitazione di Mario Avolese, ubicata all’estrema periferia di Pachino.
Oltre al capofamiglia, nella casa si trovavano i suoi due figli Adriano e Giuseppe Avolese, e l’amico del primo Dino Lentinello.
Attirato in una trappola mortale Sebastiano Di Rosa, dopo aver partecipato alla cena offerta in suo onore, fu prima massacrato di botte e, dopo essere svenuto per i colpi ricevuti al capo con un bastone e per un tentativo di strangolamento, fu sollevato di peso dal divano e condotto sino all’esterno della casa per essere adagiato sul cassone dell’autocarro di proprietà di Mario Avolese.
Il povero Sebastiano Di Rosa, che si era recato a casa degli Avolese per fare da paciere tra il proprio fratello Salvatore e Adriano Avolese, fu condotto in una zona di campagna dove i suoi aguzzini cercarono di fargli fare la fine del topo. Infatti, gli cosparsero della benzina addosso e gli lanciarono contro una benda accesa che a contatto con il carburante provocò l’incendio. Le fiamme avvolsero parzialmente il corpo del giovane poichè, mentre gli aguzzini si allontanavano a bordo dell’autocarro, si scatenava un violento temporale che determinava lo spegnimento del fuoco.
I componenti della famiglia Avolese avevano progettato di bruciare vivo il ventiquattrenne Sebastiano Di Rosa per fargli pagare l’affronto di avere difeso la condotta del proprio fratello Salvatore, che aveva intrapreso una relazione di convivenza con la convivente di Adriano Avolese, approfittando del momento di difficoltà che attraversava la donna a causa della detenzione in carcere del proprio compagno.
I due rivali in amore all’interno della Casa Circondariale di Cavadonna, durante una detenzione comune, si erano azzuffati ma erano stati prontamente divisi dai compagni di cella e dagli agenti penitenziari. Si erano lasciati però in cagnesco e a vicenda avevano minacciato rappresaglie e vendetta. Per questo motivo, Sebastiano Di Rosa, una volta ritornato in libertà, aveva deciso di fare gli opportuni passi verso Adriano Avolese per spingerlo a non attuare le minacce proferite a suo fratello. Ma Di Rosa non si mostrò umile come di solito fanno i pacieri, tutt’altro. Si fece scappare qualche parola di troppo e persino alcune frasi minacciose contro Adriano Avolese e i componenti della sua famiglia. Fu improvvido a sfidare i componenti della famiglia Avolese poichè era solo contro i due fratelli e il loro padre e contro anche l’amico di Adriano Avolese. I bicchieri di birra che gli fecero tracannare fecero perdere la lucidità mentale a Sebastiano Di Rosa che, alla fine della cena, veniva di fatto processato e subito dopo aggredito e percosso a morte. Infatti, come accertava il medico legale, la morte di Sebastiano Di Rosa non fu provocata dalle ustioni bensì dalle violente percosse che gli avevano inferto i tre Avolese e il testimone Dino Lentinello.
L’arresto degli autori dell’omicidio di Sebastiano Di Rosa avvenne alcune ore dopo la scoperta del corpo senza vita della vittima. Inizialmente negavano ogni addebito e gli inquirenti – agenti della Polizia di Stato in servizio al Commissariato di Pachino e Pubblico Ministero Maurizio Musco – si videro costretti a ricorrere ad uno stratagemma investigativo per ottenere la loro confessione sull’orrendo crimine. Mario Avolese e i suoi due figli Adriano e Salvatore vennero rinchiusi nella stessa cella della sezione detenuti normali della Casa Circondariale di Cavadonna, all’interno della quale i poliziotti avevano installato alcune sofisticate microspie. Dialogando tra di loro padre e figli ammettevano di avere partecipato al pestaggio del povero Sebastiano Di Rosa e di aver tentato di bruciarlo vivo per evitare che  venisse riconosciuto e identificato, ma concertavano come  fare ricadere la responsabilità dell’omicidio soltanto  sul conto di Adriano Avolese il quale avrebbe  dovuto accollarsi le accuse e scagionare il proprio padre, il fratello Giuseppe e l’amico Dino Lentinello.
Le registrazioni dei dialoghi tra i tre Avolese risultarono determinanti per fare condannare all’ergastolo Mario ed Adriano Avolese, a 25 anni di reclusione Giuseppe Avolese e a trent’anni di reclusione Dino Lentinello.